Unitre, Università delle Tre Età - Sondrio
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Dall'ombra del campanile alla paura del mondo

di Aldo Bonomi

Il made in Italy è un accidente o sostanza? E' pericoloso scherzare con i sofismi del Don Ferrante manzoniano. Perché alla fine Don Ferrante di peste muore. E noi, nella gobalizzazione, con il made in Italy, non stiamo tanto bene. Non vi è dubbio che il made in Italy sia stato un accidente della storia economica e produttiva di questo paese. Nessuno lo ha inventato o programmato. E' nato come un'etichetta accidentalmente applicata alle nostre merci che andavano nel mondo. Si è fatto marchio di qualità del sistema-Paese. Può diventare sostanza per aiutarci a reggere la sfida del produrre per competere. Ma per capire se il made in Italy sia sostanza, occorre non viverlo come un accidente. Non vivere come un limite la piccola impresa, i distretti industriali, l'imprenditorialità diffusa. Occorre riconoscere e riconoscersi nell'immaginazione, nei desideri, nei racconti delle persone che quel sistema hanno costruito. Senza averne un disegno preventivo, ma seguendo l'intuizione personale e sollecitando opportunità latenti. Il made in Italy, come un accidente appunto, nasce fuori dalle logiche fredde dell'economia che vedono il progresso solo legato allo sviluppo delle macchine (tecnologia), del calcolo razionale (impresa), dei freddi automatismi (mercato) e delle tecnostrutture (sistemi esperti). Un alfabeto che non apparteneva ai tanti produttori personali che nascono come imprenditori <>. Intendendosi con questo termine niente affatto un giudizio di valore negativo. Bensì intendendo riconoscere lo sforzo di migliaia di soggetti nell'evolversi da microimprese familiari e artigiane a piccole e medie imprese eccellenti che oggi competono nel mondo.

Da quella mediocrità occorre partire. Fatta di sotto scala, di imprese sommerse, di intreccio tra impresa e famiglia che ha permesso la capitalizzazione dell'impresa ma che ha messo al lavoro la famiglia per fare impresa. Imparando a produrre le merci, copiando, alla cinese, i macchinari della grande impresa. Imparando come vestirle, rappresentarle e disegnarle nelle scuole professionali del mobile, della sedia, delle scarpe, più che nelle università. Sono nate così merci che incorporano saperi, sapori e stili dei tanti territori. Da questi saperi contestuali fatti di artigianìa e di paesaggio deriva un processo di innovazione continuata del prodotto che, partendo dal campanile, si è fatto Italian style. E' la fase del localismo che partendo, dalla tradizione e dalle comunità originarie delle tante Italie, innerva il locale di embrioni proliferanti attività imprenditoriali.

Poi il localismo si fa sviluppo locale. Oltre alla famiglia crescono le imprese in rapporto con la dimensione comunale. I paesi da agricoli si fanno lentamente industriali. Verrà dopo la fase dei distretti produttivi, che corrisponde alla maturità del sistema-famiglia e delle microimprese proliferanti sul territorio. Queste danno vita a distretti produttivi sovracomunali che sono cresciuti denominandosi in base alla merce prodotta: occhiali, sedie, salotti, scarpe, caffettiere, luci, lampade, coltelli, forbici, calze, maglie, pullover, gonne… Povere cose che vanno nel mondo partendo dal campanile assieme a lavatrici, automobili e transatlantici in un mix operoso di medie imprese come la Merloni, di grandi come la Fiat e di imprese di Stato come Fincantieri. Il made in Italy che va nel mondo all'epoca dell'economia delle nazioni è tutto questo. Un marchio che teneva assieme, dava una rappresentazione unitaria delle tre Italie: quella della Fiat, quella dell'Iri e quella del capitalismo molecolare diffuso. Ferocemente divisi in casa tra guelfi e ghibellini, tra sostenitori della forza e della necessità della grande impresa privata e di Stato, e deboli cantori della terza Italia dell'economia sommersa, dell' industrializzazione senza fratture e dei distretti. Una guerra di religione con accuse di nanismo da una parte e di cattedrali nel deserto dall'altra. Ora il tempo dei fondamentalismi pare passato, anche perché la Fiat dopo una grave crisi prova a ripartire, l'Iri non c'è più, e la terza Italia dei distretti, dopo essere dilagata a macchia d'olio in tutto il Centro-Nord e a pelle di leopardo anche nel Sud, si confronta e arranca nella globalizzazione. Ci rimane un marchio, il made in Italy, che rimanda al sogno, all'illusione che sia possibile mettere assieme il capitale e la persona. La forza degli automatismi sistemici (la tecnica, il mercato, il calcolo razionale), la creatività, le emozioni e il saper fare nei tanti capitalisti personali che li mettono in movimento creando e facendo oggetti e merci. In un mondo globale in cui subiamo il neo-fordismo dei Paesi emergenti, fatto di conoscenze codificate e basso costo del lavoro, e non riusciamo a competere con l'hi-tech dei Paesi avanzati, fatto di ricerca, sviluppo e alta istruzione, il made in Italy, più che un marchio pare un simulacro. Ma non è così.
Il mercato globale è fatto anche di produzioni complesse che, essendo caratterizzate da varietà, variabilità e indeterminazione, richiedono lavoro creativo e strutture flessibili di risposta.

E' quello che noi abbiamo. La globalizzazione non è solo hard economy della quantità che viene dalla Cina o flussi ipertecnologici e finanziari ma anche soft economy che incorpora nella merce creatività, design, gusto, sapori e saperi e, perché no, anche tecnologia di nuovi materiali e un saper fare non da grandi laboratori delle nanotecnologie o delle armi del futuro ma applicata alla manifattura. Se le transnazionali e la finanza globale sono le forze che stanno promovendo lo sviluppo del neofordismo nei Paesi emergenti e l'hi-tech nei Paesi iperavanzati, occorre chiedersi se la soft economy del made in Italy, quella delle produzioni complesse, abbia un tessuto di medie imprese e banche in grado di spostare la catena della fornitura e vendita dalla scala locale a quella globale. Occorre interrogarsi se il sistema-Paese sarà in grado di sviluppare a una scala globale servizi che prima erano diffusi solo nella dimensione distrettuale e territoriale. Per far questo occorre dimenticare la saga appena raccontata basata su imprese povere e famiglie ricche o su grandi imprese sostenute dalla rottamazione. Il tutto tenuto assieme da servizi e infrastrutture a rete corta. Il made in Italy dei distretti che avevano come unico vantaggio competitivo il costo del lavoro e la messa al lavoro della famiglia, non esiste più. Così come è andata in crisi la grande impresa dei monopoli protetti. C'è sempre una famiglia cinese che lavora di più o una grande impresa cinese che paga di meno. Così come non basta più il sapere contestuale delle ottime scuole tecniche per la sedia, per il mobile…

Ci vuole un po' tanto design e un po' di università. Il made in Italy delle produzioni complesse è costruito più che dal fare la merce, dal creare, progettare e realizzare la merce. E qui, se vogliamo evitare l'ennesima guerra tra sostenitori duri e puri del made in Italy, di dazi e dogane e di guerre commerciali e i sognatori acritici della delocalizzazione alla ricerca della terra del latte e del miele e del costo del lavoro, occorre spiegarsi e capirsi. Le produzioni complesse che incorporano il made in Italy e che vanno nel mondo - siano queste le auto progettate da Giugiaro o da Pininfarina e prodotte dalla Fiat, o un paio di scarpe Tod's, o una lavatrice Ariston sino agli occhiali di Belluno o ai mobili della Brianza o agli ori del Tarì - ce la fanno perchè una media impresa leader ha spostato la catena di vendita sulla scala globale, portandosi dietro i tanti fornitori che stanno fuori dalle mura. A volte anche fuori dal sistema-Paese, ma la merce è pensata, progettata partendo dal sistema paese. Dalle sue università, dai suoi consulenti, dai tanti creativi al lavoro nei servizi per le imprese. Fra cui metto anche un po' di banche che sanno accompagnare ciò che è creato e fatto in Italia nel mondo. In molte piattaforme territoriali questo sta avvenendo. Le grandi imprese di un tempo sono più piccole, molti distretti hanno fatto condensa attorno a medie imprese. Tremilacinquecento medie imprese ne controllano 135mila e tutte quante galleggiano in un mare di piccole, piccolissime imprese artigiane e di subfornitura. E' questo tessuto manifatturiero che si va lentamente innervando di servizi che creano, progettano, vestono con immagini e tecniche le merci un po' fatte e tutte create in Italia. E' l'esercito del made in Italy. Non so se questa è la sostanza del made in Italy. So che è fatto da milioni di persone che lavorano, producono, creano, per evitare il nostro declinare nello spazio globale.


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