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Sintesi ed approfondimenti della lezione tenuta per l'Unitre di Sondrio venerdì 22 aprile 2005 dal dott. Paolo Marchettini, Responsabile del Centro di Medicina del Dolore dell'Istituto Scientifico e Ospedale San Raffaele di Milano

LA TERAPIA DEL DOLORE

Paolo Marchettini
Responsabile del Centro di Medicina del Dolore Istituto Scientifico H San Raffaele Milano

John Bonica, un anestesista americano d'origine italiana (era nato a Filicudi), iniziò la sua esperienza di medico nella guerra del Pacifico e si rese immediatamente conto di quanto fossero inadeguate le possibilità d'intervento davanti al numero dei feriti ed alla gravità delle lesioni. Anche il minimo ed essenziale intervento umanitario, lenire il dolore dei sofferenti, era di fatto impossibile per la totale disattenzione dei medici e delle gerarchie militari, impegnati in altre priorità. Dopo aver ripreso la professione a Seattle, Bonica si rese conto che neppure nella vita civile vi era considerazione per il problema del dolore. Le puerpere partorivano con dolore, negli ospedali i degenti soffrivano dopo gli interventi e durante le manovre diagnostiche, i malati di cancro spesso andavano incontro alle fasi finali della malattia con dolori gravi ed umilianti.
Bonica, un uomo tarchiato, che negli ultimi anni della sua lunga ed intensa vita è andato sempre più assomigliando al padrino dei film di Coppola, anche per via dell'inseparabile bastone d'argento con cui sosteneva la zoppia dovuta all'artrosi d'anca, ha compendiato le energie dell'immigrato riuscito, il vigore del lottatore di wrestling che era stato in gioventù per pagarsi gli studi e la vitalità del grande Paese americano, nel momento in cui dopo la vittoria della guerra mondiale, tutti i sogni erano possibili e le barriere che ostacolavano una vita più umana e migliore per tutti sembravano abbattibili. Con le sue sole forze scrisse il libro-bibbia sul dolore, intitolato appunto "Pain". Si tratta di un'opera mastodontica, più di tremila pagine dedicate ai dolori relativi a tutti gli organi ed apparati, suddivisi metodicamente secondo le malattie in ordine di gravità e frequenza. Un lavoro enorme per un uomo solo, che sotto molti aspetti pecca per dilettantismo o mancanza d'approfondimento sui meccanismi fisiopatologici. E' però un'opera storica che ha ribaltato un paradigma della medicina: il dolore non è solo un sintomo, bensì una malattia, non soltanto una spia di essa. Per combatterlo Bonica, incoraggiato e sostenuto dal neurochirurgo John Loeser, fondò la prima Pain clinic, modello e scuola per tante altre nel mondo. Successivamente nel 1973, fu fondata anche l'associazione internazionale per lo studio del dolore, che conta oggi più di 6500 soci in diversi paesi, centoquindici dei quali in Italia. Dai giorni pionieristici di Bonica ad oggi di dolore si è parlato molto, non solo tra medici e ricercatori (le pubblicazioni scientifiche sull'argomento si sono moltiplicate vertiginosamente negli ultimi dieci anni), ma anche nei media e nelle istituzioni internazionali come l'organizzazione mondiale della Sanità, che vi ha dedicato un dipartimento affidato a Kathleen Foley, neurologo del prestigioso Sloan Kattering cancer Center di New York. Dagli studi del gruppo di Foley, che ha preso in esame il consumo minimo di morfina adeguato a lenire il dolore da cancro e lo ha confrontato con l'incidenza di tumori ed il consumo complessivo d'oppioidi nel mondo, suddiviso per paese, è presto emerso che il dolore da cancro è inadeguatamente curato ovunque, ma che in alcuni paesi non lo è quasi per nulla.

L'Italia è stata il fanalino di coda nel consumo d'oppiodi in rapporto all'incidenza di tumori in tutta l'Europa, inclusi i paesi dell'est, con la sola Romania alle spalle. Tale arretratezza nella terapia del dolore aveva molte cause, e tante persistono, ma le più gravi perché più facilmente rimediabili erano legislative. Va dato merito al Prof. Vittorio Ventafridda, anestesista primario emerito dell'Istituto dei Tumori di Milano, di aver "colto l'attimo" e, Ministro della Sanità il suo chirurgo ed amico Umberto Veronesi, di aver promosso con insistenza la da tempo dovuta revisione della legislazione sulla prescrivibilità della morfina e degli oppioidi in genere. La legge permette oggi di prescrivere oppioidi a pazienti con dolori cronici per malattie gravi per periodi di 30 giorni, senza dover rinnovare la ricetta ogni sette giorni come prima. Contenuto ancora più importante della legge è la depenalizzazione del reato, in cui incorrevano il medico e soprattutto il farmacista ritenuti responsabili d'errori di prescrizione o archiviazione. Rimangono ancora sanzionabili, e con ammende severe, ma solo secondo il codice civile, gli errori del farmacista. E' stato anche permesso il trasporto degli oppioidi a casa del malato, ed è quindi possibile per un infermiere prestare le cure a domicilio senza incorrere nel reato di trasporto abusivo di stupefacenti. Stupisce davvero che fosse considerato quasi criminoso curare il dolore dei malati di cancro nel nostro paese, eppure lo è stato fino a poco tempo fa.

Nonostante la nuova legge il consumo d'oppioidi non ha però avuto in Italia l'impennata auspicabile. Anche nella cura del dolore l'Italia ha reagito all'italiana: la maggioranza degli ordini dei medici non dispone ancora dei nuovi ricettari in duplice copia per prescrizione di 30 giorni anziché dei precedenti 7. Questo non è però il maggior fattore limitante, l'età media dei medici di medicina generale, a diretto contatto con i propri assistiti, supera i 40 anni e si è perciò laureata oltre 15 anni fa, quando l'associazione italiana per lo studio del dolore, nata nel 1976, stava ancora crescendo e si rivolgeva in ogni modo soltanto agli specialisti cultori della materia. L'aggiornamento di questi medici e lo scambio di vedute con i pochi esperti di terapia del dolore è limitata dalle restrizioni ministeriali che impediscono ai medici di medicina generale di partecipare a congressi specialistici.

In Francia, Bernard Kouchner, insignito del premio Nobel per aver fondato Médecin Sans Frontières, da Ministro della Sanità si è trovato di fronte un Paese poco più avanti dell'Italia per consumo individuale d'oppioidi e qualità della ricerca e cura del dolore. Kouchner ha immediatamente identificato la cura del dolore tra le priorità sanitarie del suo mandato, ha fatto istituire nei dieci principali istituti universitari cattedre d'insegnamento e ricerca sul dolore ed ha dato mandato agli ospedali dipartimentali di aprire dei centri di terapia del dolore. In soli cinque anni le prescrizioni di analgesici in Francia si sono allineate a quelle della Germania, che è con i paesi scandinavi quello leader in Europa per la ricerca e la cura del dolore. In Francia lo scambio di informazioni tra i centri universitari ed i medici di medicina generale è più organizzato e capillare, ma l'esempio d'oltralpe dimostra quanto sia indispensabile un cambiamento di mentalità fondato su una maggiore ed approfondita informazione. In aggiunta non è sufficiente istituire insegnamenti di terapia del dolore nelle Università, peraltro al momento non esistenti né previsti, ma occorre informare i medici in attività dei progressi avvenuti e delle possibilità esistenti nella cura del dolore. Questi passi sono indispensabili per modificare i pregiudizi e le errate impostazioni terapeutiche più resistenti al cambiamento. Uno degli esempi più eclatanti è la prescrizione/assunzione di analgesici al bisogno per curare dolori persistenti o cronici, quando è invece raccomandabile l'assunzione ad intervalli regolari, che previene la comparsa di dolore e permette un costante controllo con dosaggi più contenuti. Un secondo è l'abuso di formulazioni iniettabili, non indicate nell'uso cronico e poco indicate in generale, perché quasi tutti gli analgesici assunti per via orale sono ben assorbiti. Un terzo è l'eccessivo ricorso ad antiinfiammatori come analgesici di prima linea per il dolore moderato, con conseguenti maggiori rischi d'ulcere gastriche. Un quarto è la resistenza alla prescrizione d'oppioidi, anche deboli, per incapacità di controllarne gli effetti collaterali ed ingiustificati timori di indurre resistenza. La lista è lunga e non è questa la sede per un trattato sulla materia. Il punto è che sarebbe illusorio descrivere le scoperte nella terapia del dolore senza citare le cause che concorrono a limitarla.

Recentemente i responsabili della Sanità delle regioni, i direttori delle ASL e delle strutture d'assistenza che si sono proposte l'apertura di servizi dedicati, sono molto impegnati nella realizzazione degli Hospice per le cure palliative. Tuttavia questo progetto che è affrontato con grave ritardo rispetto alla maggior parte del mondo evoluto, pur essendo un atto d'apprezzabile impegno della Sanità Nazionale, appartiene già al passato della terapia del dolore.

Il dolore intenso, invalidante, il dolore che limita o impedisce la gioia di vivere e anche i più comuni gesti della vita quotidiana non riguarda esclusivamente i malati di cancro in fase avanzata di malattia. Molte malattie non mortali sono invalidanti e dolorose, molte di queste come la nevralgia posterpetica, l'artrite reumatoide, l'artrosi vertebrale, aumentano di prevalenza esponenzialmente con l'invecchiamento, realtà che nel Paese con l'età media più alta del mondo dovrebbe essere valutata con maggiore considerazione. In aggiunta, e fortunatamente in questo caso, il futuro della terapia dei tumori prevede uno scenario meno tetro del presente. Sarà presto possibile aggredirli specificamente inserendo vettori destinati alle cellule neoplastiche ed anche impedire l'espressione dei fattori di crescita. Il cancro non sarà ancora in molti casi rimovibile, ma sarà meglio curabile, come molte malattie croniche, e questo garantirà sopravvivenze per tempi lunghi. Chi raggiungerà l'età avanzata, e saranno sempre di più coloro che invecchieranno, andrà inevitabilmente incontro a crescenti rischi di contrarre malattie croniche e dolorose. Fortunatamente soltanto una minima percentuale della popolazione italiana necessiterà di cure palliative ed assistenza negli Hospice, al contrario molti cittadini, ed in numero sempre crescente, avranno bisogno di curare diversi tipi di dolori, più o meno costanti e più o meno intensi.

Il futuro deve innanzi tutto garantire minori costi e maggiore autonomia nelle cure, obiettivi che possono essere raggiunti da coincidenti strategie. Sono già disponibili nuovi antiinfiammatori a ridotta gastrolesività e formulazioni trans-dermiche che rilasciano farmaci analgesici, oppioidi ed antinfiammatori, in modo progressivo e protratto. Queste possibilità terapeutiche tra breve si espanderanno. Nuovi strumenti di somministrazione sono all'orizzonte che permetteranno di erogare attraverso la cute o per inalazione molecole voluminose, anche proteine più efficaci e di lunga durata d'effetto. Nei casi di dolore resistente alle terapie si può già oggi iniettare direttamente morfina nel sistema nervoso centrale, vicino ai centri nervosi d'arrivo dei segnali dolorosi. Entro uno/due anni saranno disponibili nuovi analgesici non oppioidi somministrabili per questa via, per trattare anche quei pazienti che non rispondono alla morfina o non ne sopportano gli effetti collaterali.

Questi mezzi di trattamento sono potenti, ma costosi e richiedono perciò di rivedere il modo in cui pensiamo la medicina. Bisogna informare sempre di più e meglio i malati, che devono essere in grado di conoscere e prevenire i più comuni effetti collaterali, peraltro noti e prevedibili. E' importante offrire a chi è in terapia cronica, degli strumenti che permettano autonomi aggiustamenti terapeutici, nel rispetto della sicurezza per evitare sovradosaggi. E' necessario mettere a disposizione dei cittadini in cura, sistemi di dosaggio a distanza per via elettronica delle dosi di farmaco assunte, per consentire la diffusione capillare dei nuovi strumenti di terapia e non limitarli soltanto ai residenti dei centri urbani vicini ai grandi ospedali superspecialistici. Il medico ed il cittadino avrebbero molto da guadagnare se il primo fosse in grado di diventare consulente affidabile ed il secondo interlocutore esperto. Si eviterebbe l'inutile affollamento dei servizi, conseguente ad eccessiva ansia o tardiva valutazione dei problemi, entrambe figlie della scarsa informazione. Medici più capaci potrebbero dedicarsi a problemi più specifici ed infermieri più gratificati sarebbero disponibili se fossero sottratti alle gravose, e spesso non necessarie, fatiche dell'assistenza. Questo si realizzerebbe perché una gestione così impostata ridurrebbe drasticamente i ricoveri, certamente quelli che avvengono in molti casi per il dolore, la prima causa di richiesta d'aiuto sanitario.

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DANNI IATROGENI

Primo: non nuocere. È il principio che, dai tempi di Ippocrate, insegna che la medicina, per quanto orientata a ridare la salute a chi l'ha persa, in qualche caso può provocare un danno non voluto che può aggravare la situazione. I Greci esprimevano questa consapevolezza usando la stessa parola per veleno e medicina (pharmacon).
Ai nostri giorni, per indicare le complicazioni, che insorgono a seguito di un atto medico, si usa l'espressione "danni iatrogeni", che letteralmente significa "generati o causati dalla medicina".

Le scoperte degli antibiotici e dell'anestesia, insieme con il progresso della chirurgia, hanno garantito un reale miglioramento delle condizioni di salute dell'umanità, ma questo successo ha anche favorito atteggiamenti paternalistici da parte dei medici ed alimentato aspettative non realistiche nei pazienti. La combinazione di questi fattori, cui si aggiunge una maggior consapevolezza dei propri diritti da parte dei pazienti, ma anche la deresponsabilizzazione ed il rifiuto del rischio e della morte, ha avuto effetti controproducenti nel rapporto medico-paziente portando all'esplosione delle cause legali cui si assiste oggi in America e, in parte, anche in Italia.

È giunto il momento di riconoscere che, per quanto la medicina sia spesso molto efficace, tuttavia presenti, come tutte le attività umane, dei fattori di rischio che i pazienti devono aspettarsi. Anche i medici d'altra parte devono mutare atteggiamento, riconoscendo che esistono fattori di rischio legati ai propri limiti ed a quelli strumentali ed organizzativi delle strutture in cui operano, potranno sforzarsi di identificarli e discuterli apertamente per evitarli e prevenirli il più possibile".

Uno studio della Harvard Medical Press, infatti, riporta che il 70% delle complicazioni iatrogene riscontrate nel 1991, e che hanno colpito più di 1.300.000 pazienti ricoverati negli ospedali americani, si sarebbe potuto evitare. Una delle cause più frequenti di iatrogenicità è l'eccessivo ricorso ad atti diagnostici invasivi ed interventi chirurgici, spesso non indispensabili ed a volte addirittura inutili. Questa tendenza ad un eccesso d'aggressività è purtroppo aumentata nell'ultimo decennio. Originariamente si tendeva ad accusare la categoria medica di favorire le prestazioni invasive perché più redditizie, tuttavia, anche se questo sospetto ha una base di verità, le origini del fenomeno sono più complesse. Gli atti invasivi e gli interventi impropri e di pari passo anche la spesa sanitaria, sono, infatti, ulteriormente aumentati dopo l'introduzione da parte delle Assicurazioni sanitarie negli Stati Uniti, o dal '95 anche in Italia da parte del Ministero della Sanità, di nuovi criteri di rimborso a prestazione: i DRG (Diagnosis Related Group), che erano stati studiati ed introdotti proprio con l'obiettivo opposto, di ridurre i costi della Sanità. Nel nuovo sistema economico che si è venuto a creare i medici non hanno più interessi diretti ad eseguire prestazioni invasive, ma queste sono comunque in aumento, insieme con la riduzione di accuratezza diagnostica, il che dimostra come anche i responsabili della gestione economica e politica della Sanità abbiano le loro responsabilità nell'aumento della iatrogenesi e che questa non sia un problema strettamente medico.
Questo tipo di gestione, che ha portato sicuramente una maggiore efficienza nello sfruttamento dei tempi, tuttavia aumenta la possibilità che, per la riduzione dei criteri di selezione pre-operatori, la decisione di sottoporre un determinato paziente ad un intervento chirurgico non sia ponderata con la dovuta attenzione.

"È certo che, sedotti dal potere della scienza e delle nuove tecnologie", continua il dottor Marchettini, responsabile del centro di Medicina del Dolore dell'Istituto Scientifico San Raffaele, gli specialisti già in precedenza abbiano delegato la responsabilità diagnostica, cardine dell'arte medica. Di questa rinuncia al valore della riflessione diagnostica sono stati però ulteriormente responsabili anche quelle istituzioni deputate al rimborso sanitario (negli Stati Uniti le assicurazioni, in Italia il Ministero della Sanità), che hanno privilegiato le prestazioni chirurgiche rispetto a quelle diagnostiche. Favorire l'atto chirurgico-terapeutico, ossia la precedenza dell'azione sulla ragione, ha sicuramente amplificato la iatrogenesi. Per restituire sicurezza all'azione medica, quindi, è necessario in primo luogo ripristinare il valore culturale ed economico dell'atto diagnostico.

Quando poi l'intervento sia stato adeguatamente ponderato e giudicato necessario è di fondamentale importanza identificare le cause più comuni delle complicanze chirurgiche. Prendendo ad esempio il caso del dolore da lesione nervosa, che purtroppo riconosce almeno nel 40 % dei casi cause iatrogene, si possono identificare particolari interventi più a rischio di altri. Esaminando la casistica di 12 anni di attività del Centro di Medicina del Dolore del San Raffaele, presentata al recente congresso mondiale di Vienna dell'International Association Study of Pain, abbiamo riscontrato che le lesioni nervose iatrogene si ripetono con sorprendente costanza", spiega a questo proposito il dottor Marchettini. "Tra le cause più frequenti ci sono le lesioni ai nervi del collo causate dalle biopsie dei linfonodi cervicali, quelle ai nervi ascellari, provocate da interventi sulla mammella, e quelle ai nervi genitali, causate dalle plastiche inguinali. Ma anche una banale asportazione delle vene varicose non di rado provoca lesioni dei nervi delle gambe. Paradossalmente anche le ultime, sofisticate tecniche endoscopiche poco invasive, utilizzate particolarmente per interventi sul polso (tunnel carpale) e sulle ginocchia (artroscopia), causano più lesioni nervose di quanto non facessero precedentemente gli interventi tradizionali". Non tutte le colpe, però, sono da attribuire al "bisturi selvaggio": spesso le circostanze del danno sono inevitabili. Infatti, solo nel 5-10% dei casi una lesione iatrogena provoca dolore, mentre il più delle volte si verifica una perdita di sensibilità più o meno completa: per questa ragione, prevenire e riconoscere le nevralgie è oggettivamente difficile dato che lo stesso tipo di trauma non provoca conseguenze gravi nella maggior parte dei pazienti. Le complicanze provocate involontariamente dai medici tendono così a essere sottovalutate, anche perché il dolore può apparire a distanza di tempo dal momento della lesione e quindi non essere immediatamente riconducibile ad essa".

Cose può essere fatto, allora, per limitare queste preoccupanti conseguenze? "In primo luogo, evitare interventi rischiosi quando non siano strettamente necessari", insiste l'esperto, "molti pazienti affermano che se avessero potuto immaginare i dolori cornici che stanno soffrendo non si sarebbero mai sottoposti all'intervento. Questa considerazione deve indurre a riflettere quando si sta valutando l'ipotesi d'interventi minori, cosmetici o non indispensabili. Le possibili complicanze iatrogene dovrebbero poi essere sempre menzionate nel richiedere il consenso informato. Un paziente informato accetta responsabilmente e consapevolmente di assumersi un rischio che in parte non dipende dalla competenza e capacità professionale del medico".

Un grosso sforzo per ridurre questo dramma è fatto in questi tempi dalla ricerca. In base a esperimenti per ora eseguiti soltanto sui ratti, sembrerebbe possibile prevenire la comparsa delle lesioni nervose bloccando completamente i nervi con anestetici locali al momento del trauma. In questo studio sugli animali, il pre-trattamento anestetico locale previene completamente l'insorgenza d'iperattività del sistema nervoso centrale e di cambiamenti nel comportamento delle cellule nervose che costituiscono una specie di "memorizzazione" del dolore. Sebbene l'applicazione clinica di questa metodologia richieda prove più stringenti attraverso ricerche sull'uomo, il potenziale effetto di protezione dell'anestesia locale negli interventi in cui c'è il rischio di lesioni ai nervi vale la pena di essere indagato ulteriormente.

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DOLORE NEUROPATICO

Nel corso dell'internato clinico in neurologia durante gli ultimi anni di università, frequentavo il laboratorio di elettromiografia e fui esposto per la prima volta alla bizzarria del dolore neuropatico. Pazienti con lesione nervosa, per lo più gravi lombosciatalgie, neuropatie diabetiche e sequele di herpes zoster, lamentavano intensi dolori con qualità e caratteristiche particolari, localizzati nei territori cutanei in cui la sensibilità era alterata, in alcuni casi quasi assente. Non di rado l'intensità del dolore pareva sproporzionata all'entità della lesione nervosa e spesso l'esame elettromiografico mostrava poche alterazioni, contrariamente a quanto imparavo a riconoscere nelle neuropatie motorie, nelle quali l'esame sempre mostrava anormalità, che anticipavano spesso i principali segni clinici. Ricordo in particolare un paziente con dolore radicolare in esiti di laminectomia, tra i primi ai quali eseguii personalmente l'esame ad ago dei muscoli, che riferiva un intenso dolore provocato dallo sfregamento dei peli della gamba malata. Paradossalmente tollerava meno lo strofinamento superficiale della penetrazione dell'ago, che riferiva meno dolorosa nei muscoli denervati rispetto a quelli sani. La mia totale ignoranza delle manifestazioni cliniche del dolore neuropatico m'impedì di diagnosticare il mio primo caso di allodinia, il dolore evocato da stimoli normalmente non dolorosi, che nel caso specifico non si associava ad iperalgesia, condizione in cui il dolore anormalmente intenso è provocato da stimoli adeguati ad evocare dolore. La mia formazione di neurofisiologo proseguì all'università di Madison Wisconsin, dove fui esposto allo studio dei primi pazienti con dolore neuropatico da lesione nervosa periferica. Il progetto di ricerca cui partecipavo aveva lo scopo di registrare, mediante microelettrodi, le attività elettriche anormali delle fibre sensitive di pazienti con dolore neuropatico. Alcuni anni prima Wall e Gutnik avevano documentato che il neuroma d'amputazione sperimentalmente prodotto nel ratto diventava la sede di generazione di impulsi nervosi anormali, la così detta attività ectopica, e vi erano fondati presupposti per ritenere che il dolore neuropatico provocato da alcune lesioni nervose fosse conseguente ad un'anormale attività spontanea degli assoni sensitivi. Tre anni di ricerche e centinaia di registrazioni produssero risultati positivi, ma complessivamente deludenti. Fu possibile registrare attività nervose ectopiche nei nervi lesi (e, fatto particolarmente interessante, anche in alcuni casi che avevano un esame elettroneurografico convenzionale ancora normale), ma il successo era raro ed in molti pazienti con dolore neuropatico l'esame risultava normale. In alcuni casi le registrazioni neurofisiologiche confermavano il sospetto che il dolore neuropatico (ed anche gli altri disturbi sensitivi positivi non dolorosi come le parestesie) fosse prodotto da un'instabilità elettrica degli assoni sensitivi che tendevano a depolarizzarsi spontaneamente in sedi diverse dal recettore (attività per questo definita ectopica), ma nella maggioranza dei casi non si riusciva a scoprire un'anormalità elettrica.

Sull'onda dell'entusiasmo creato dalla teoria del cancello di Melzack e Wall, formulata nel 1968, che per la prima volta offriva un'ipotesi testabile sulla genesi del dolore neuropatico, negli anni 70-80 si moltiplicarono esponenzialmente i finanziamenti e gli anni 80 furono particolarmente fervidi per la ricerca sul dolore neuropatico, che attrasse molti neurofisiologi sperimentali. Gli studi sull'animale permisero di scoprire i fenomeni di sensibilizzazione centrale. Le lesioni sperimentali del nervo periferico (sezioni complete o parziali, oppure strozzamenti mediante legatura), oltre all'anormale attività negli assoni periferici producevano anche la comparsa d'attività spontanea nei neuroni del midollo spinale ed addirittura nel talamo e nella corteccia. In aggiunta i neuroni sensitivi del midollo spinale e del talamo (neuroni sensitivi di secondo e terzo ordine) manifestavano un aumento della frequenza e della durata delle scariche in risposta alla stimolazione periferica. Questo fenomeno anormale si verificava curiosamente anche in risposta ad impulsi apparentemente del tutto normali provenienti dall'assone periferico. Si tratta di un'alterazione permanente nel comportamento dei neuroni spinali e cerebrali che richiede un cambiamento a lungo termine del programma di scarica, che è geneticamente strutturato per essere normalmente proporzionato all'intensità dello stimolo periferico. Studi successivi hanno effettivamente dimostrato che se nel momento in cui avviene la lesione nervosa periferica si verificano particolari condizioni di eccitabilità la cellula di secondo ordine non soltanto scarica a frequenza elevata proporzionale a quella periferica, ma superata una determinata soglia di scarica, diventa permeabile anche a ioni calcio oltre che a ioni sodio. Gli ioni calcio inducono l'attivazione di geni che modificano per tempi lunghi o anche permanentemente il comportamento cellulare. Il risultato registrabile di questa sequenza di reazioni è un'elevata attività di scarica nervosa della cellula di secondo ordine in risposta anche a basse frequenze di scarica del neurone periferico. Il fenomeno è sorprendentemente analogo a quello che si verifica nelle cellule dell'ippocampo e che sottende la formazione della memoria. Molti incontri scientifici sui meccanismi del dolore neuropatico sono, in effetti, intitolati "la memoria del dolore" per esemplificare quanto i cambiamenti a lungo termine responsabili del dolore neuropatico cronico costituiscano una forma di ricordo patologico. La scoperta dei fenomeni di sensibilizzazione centrale e delle modificazioni a lungo termine delle caratteristiche di risposta delle cellule spinali e cerebrali consente di comprendere alcune caratteristiche complesse del dolore da lesione nervosa quali l'allodinia, l'anestesia dolorosa, il dolore fantasma dell'amputato, la ricomparsa del dolore dopo rimozione del neuroma periferico. In tutti questi casi il dolore, generato originariamente da una lesione periferica, viene mantenuto ed anche in alcuni casi amplificato da alterazioni di funzione del sistema nervoso centrale.

Il dolore centrale. Il dolore neuropatico non origina soltanto da lesioni del sistema nervoso periferico, ma può anche essere il risultato di lesioni dirette del midollo, del tronco cerebrale o dell'encefalo. Anche nel dolore da lesione del sistema nervoso centrale (definito dolore centrale) si può riscontrare anestesia dolorosa e dolore evocato da stimoli. Le lesioni spinali o cerebrali per essere dolorose devono compromettere necessariamente la via spinotalamica, che è la via di trasmissione degli stimoli dolorosi. In tutti i pazienti con dolore centrale si possono identificare delle alterazioni nella percezione del dolore, del caldo e del freddo. Il dolore centrale può esordire contemporaneamente al verificarsi della lesione nervosa, ma di norma la sua comparsa è ritardata rispetto alla lesione. In alcuni casi può comparire a distanza di molti mesi, anche un anno. Si crede perciò che il dolore centrale sia anch'esso conseguente ad un'iperattività neuronale, che può apparire nella fase di recupero delle funzioni cellulari, similmente a quanto si verifica in alcuni casi d'epilessia post traumatica. Lo stimolo non doloroso più spesso responsabile dell'allodinia nelle lesioni del sistema nervoso periferico è lo strofinamento, mentre nel dolore centrale è più comune il dolore evocato da stimoli termici, soprattutto freddi. Il dolore in questi casi può assumere qualità paradosse, con sensazioni di bruciore evocate dal freddo e progressivamente crescenti, anche in assenza di costante contatto, a causa della perdita di circuiti inibitori indispensabile all'estinzione delle percezioni normali ed alla naturale assuefazione. Dopo l'esperienza americana mi trasferii a Stoccolma ed ebbi l'opportunità di collaborare con Ulf Lindblom, il maggior esperto di disturbi della sensibilità, che aveva messo a punto uno strumento per la quantificazione delle soglie sensitive per gli stimoli termici. Utilizzando questi strumenti ebbi modo di documentare alcune caratteristiche alterazioni della percezione termica in pazienti con lesioni dolorose del sistema nervoso centrale, che se non ben analizzate potrebbero essere interpretate come manifestazioni psicopatologiche. In alcuni casi i pazienti per esempio sono incapaci di riconoscere uno stimolo caldo, ma appena aumenta di poco la temperatura, improvvisamente avvertono bruciore. In altri casi il freddo viene immediatamente percepito come bruciore o dolore profondo. Frequenti poi sono le alterazioni del reclutamento temporale: il primo stimolo viene percepito quasi normalmente, ma la discriminazione degli stimoli successivi è alterata, per cui il paziente avverte il singolo stimolo caldo o freddo, ma non discrimina più ulteriori variazioni degli stimoli successivi che non di rado sono percepiti unicamente come dolorosi. Fenomeni del genere non sono dovuti alla disattenzione o scarsa collaborazione del paziente, ma specifica conseguenza della lesione spinotalamica e comunemente presenti in pazienti con esiti di ischemia o emorragia cerebrale, trauma midollare o sclerosi multipla che lamentano dolore centrale.

In aggiunta ad essere complicato nelle sue manifestazioni sintomatiche il dolore centrale è anche difficile da trattare. Il controllo del dolore naturale, il cosiddetto dolore da attivazione dei recettori del dolore (nocicettori) avviene, infatti, mediante farmaci che riducono l'intensità della scarica afferente dei nocicettori oppure mediante farmaci che aumentano l'attività inibitoria. A parte la possibilità di eseguire un'anestesia locale, la prima categoria di farmaci è principalmente costituita dagli analgesici antiinfiammatori, la seconda categoria è invece costituita dagli oppioidi ed anche da alcuni antidepressivi con azione noradrenergica. Nel dolore neuropatico l'alterazione è situata prossimalmente al nocicettore, perciò non vi è spazio terapeutico per gli antiinfiammatori, fatta salvo una loro parziale e limitata azione centrale. Purtroppo anche gli oppioidi sono meno efficaci di quanto siano nel dolore nocicettivo, perché il loro sito d'azione è principalmente il neurone spinale, (la cellula sensitiva di secondo ordine situata nel corno posteriore) e questo neurone riduce la quantità dei siti recettoriali per gli oppioidi quanto aumenta cronicamente l'attività di scarica. Il neurone iperattivo rimane sensibile all'inibizione noradrenergica e perciò un farmaco molto utilizzato è l'amitriptilina, ma questa via inibitoria non è quasi mai sufficiente da sola a controllare la maggior parte dei dolori neuropatici. Nel dolore neuropatico i farmaci più efficaci sono i bloccanti dei canali ionici, che inibiscono la depolarizzazione neuronale. Si utilizzano sia bloccanti dei canali del sodio che del calcio. I bloccanti dei canali ionici non sono un'unica categoria farmacologica, svolgono questa azione gli anestetici locali, alcuni antiaritmici e gli antiepilettici. Purtroppo non tutti i farmaci farmacologicamente efficaci hanno una pratica efficacia clinica. La lidocaina per esempio è probabilmente il farmaco più efficace per curare il dolore neuropatico, ma il suo impiego è limitato dalla necessità di somministrazione endovenosa, la mexiletina invece non e clinicamente molto utile perché le dosi efficaci producono una vasodilatazione eccessiva con effetti collaterali da ipotensione arteriosa. Come categoria gli antiepilettici sono in genere i farmaci più efficaci per curare il dolore neuropatico, ma anche in questo caso il rapporto tra efficacia ed effetti collaterali è molto variabile tra i diversi prodotti. Anche la tollerabilità differisce molto da paziente a paziente perché, come ci insegnano le recenti scoperte di farmacogenetica, esistono notevoli variazioni genetiche per quanto riguarda l'espressione del citocromoQ su cui questi farmaci interferiscono. Il farmaco approvato dalla tradizione, ossia introdotto nell'uso clinico prima che vi fossero requisiti molto precisi per l'autorizzazione all'impiego in definite condizioni cliniche, è la carbamazepina, mentre l'unico farmaco ufficialmente approvato per la cura del dolore neuropatico è la gabapentina. La carbamazepina è meno costosa e rimane il farmaco di prima scelta per i dolori lancinanti ed episodici, quali per esempio la nevralgia trigeminale o i parossismi della sclerosi multipla. Una valida alternativa a questo prodotto, è il suo derivato oxcarbazepina. Per quanto riguarda le altre forme di dolore neuropatico la gabapentina è attualmente il farmaco di riferimento, anche se la sua efficacia sembra maggiore nel controllo del dolore neuropatico periferico rispetto al dolore centrale. Considerando le notevoli variazioni di risposta individuale è sempre utile adattare la posologia di questi farmaci al risultato clinico ed agli effetti collaterali, raggiungendo anche dosi elevate, seppur con aumenti lenti e graduali. Nel caso di insuccesso si devono prendere in considerazione quale alternativa terapeutica praticamente tutti gli altri antiepilettici di nuova generazione, perché vi sono pazienti che rispondono esclusivamente ad uno di questi farmaci e non agli altri. È perciò necessario armarsi di pazienza e ricercare con cura un possibile risultato anche dopo ripetuti fallimenti. È utile anche ricordare che nel dolore neuropatico un obiettivo realistico è la riduzione del dolore ad intensità tollerabili, purtroppo la risoluzione completa rimane attualmente un risultato eccezionale e non la regola. Per questo motivo farmaci che siano stati parzialmente utili vanno tenuti in considerazione e riprovati eventualmente a dosi maggiori, quando al termine di numerosi tentativi si fallisse il risultato inizialmente sperato. In questi casi con dolore invalidante vanno prese in considerazione le tecniche di neuromodulazione, la stimolazione spinale e l'infusione di farmaci direttamente nello spazio liquorale, queste procedure si eseguono nei centri di terapia antalgica dopo stretti criteri di valutazione preoperatoria.

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NUOVE PROSPETTIVE NELLA TERAPIA DEL DOLORE

Sono più di 880 i farmaci per la terapia del dolore citati in Internet. I principi attivi sono però solo un centinaio, distinguibili in poche categorie: analgesici non antiinfiammatori, antiinfiammatori non steroidei (FANS), oppioidi narcotici, analgesici centrali non narcotici e/o adiuvanti. FANS e oppioidi hanno come capostipiti l'aspirina sintetizzata dal 1875 e la morfina sintetizzata dal 1806. Le sostanze naturali contenenti salicilati ed oppioidi sono usati per curare i dolori da molti secoli. Quest'apparente staticità farmacologica non corrisponde agli enormi progressi di conoscenza avvenuti in questo campo, che hanno radicalmente cambiato l'approccio terapeutico. In primo luogo è stato riconosciuto che il dolore cronico può essere conseguente a modificazioni dell'espressione genetica di recettori del sistema nervoso e che va curato in modo specifico e diverso dal dolore acuto. In altre parole i farmaci efficaci nel controllo del dolore acuto, gli antiinfiammatori e gli oppioidi, non sono altrettanto efficaci nella cura del dolore conseguente a modificazioni a lungo termine delle vie nervose, in cui si riducono i recettori per gli oppioidi ed aumentano i recettori per altri mediatori. Per questo motivo è diventato fondamentale porre una diagnosi del tipo di dolore per impostare la corretta terapia. In secondo luogo si comincia a riconoscere, grazie a studi sul metabolismo cerebrale, che la percezione ed elaborazione del dolore, e anche la sua inibizione mediante trattamenti come l'agopuntura, coincidono con l'attivazione di molteplici sedi corticali. Queste osservazioni avvallano la base organica di controlli inibitori genericamente considerati "placebo", o fenomeni emotivi privi di substrato biologico. È oggi assodato che l'apparato sensitivo per la percezione del dolore è costituito da un insieme di strutture nervose in grado di trasmettere e percepire, ma anche inibire, addirittura sopprimere, o all'opposto amplificare, l'intensità della percezione di stimoli che in ultimo sono definiti "dolorosi". Per questo motivo i centri mentali della cognizione possono generare dolore in assenza di stimoli nocicettivi. Questo dolore, genericamente definito psicosomatico, è realmente "percepito e vissuto", ma non è curabile con gli analgesici disponibili.

Il dolore nocicettivo acuto è percepito quando stimoli sufficientemente intensi attivano i terminali specializzati di cellule nervose chiamate nocicettori. Il nocicettore emette impulsi elettrici di frequenza proporzionale all'intensità dello stimolo. I segnali raggiungono sinapsi con cellule nel midollo spinale dove liberano sostanza P ed aminoacidi eccitatori. Le cellule spinali hanno recettori specializzati (i NK1 per la sostanza P e i recettori AMPA per gli aminoacidi) e reagiscono allo stimolo producendo impulsi diretti ai centri nervosi superiori, che in ultimo elaborano la sensazione di dolore. Le cellule spinali, però, producono una risposta soltanto se sono pronte ad essere eccitate e se lo stimolo periferico ha intensità di frequenza e durata adeguate. In normali condizioni le cellule spinali non trasmettono al cervello tutti gli stimoli che ricevono, ma solo quelli di intensità soprasoglia. Vi è, infatti, una via nervosa che mantiene le cellule spinali parzialmente inibite, mediante il rilascio di diversi neuromediatori: noradrenalina, serotonina, acido gamma aminobutirrico, cannabinoidi endogeni, e soprattutto endorfine, che inibiscono neuroni sui quali si legano anche i farmaci oppioidi. Le endorfine e gli altri mediatori inibitori impediscono al cervello di ricevere gli stimoli dolorifici esterni potenziando il "filtro" spinale. L'azione di "filtro" spinale varia tra individui e nei diversi momenti della vita. Può anche essere modificata da stati mentali come l'esperienza, l'eccitazione e lo stato dell'umore.

Nel dolore nocicettivo acuto e subacuto il nocicettore, può rimanere attivo anche dopo la rimozione dello stimolo nocicettivo. Se lo stimolo è abbastanza intenso provoca il rilascio di mediatori chimici algogeni contenuti nei tessuti traumatizzati o nello stesso nocicettore. Sostanze algogene sono le prostaglandine, la sostanza P, l'istamina, le citochine e anche il calcio ed il potassio o fattori di crescita rilasciati dai tessuti sofferenti o dalle cellule dell'infiammazione. Gli algogeni protraggono l'eccitazione del nocicettore e lo rendono anche più sensibile agendo su specifici recettori per i vanilloidi (VR1 e VRL1), situati sulla membrana neuronale. In alcune malattie infiammatorie croniche, come per esempio la colite ulcerosa, i recettori per i vanilloidi aumentano di numero. Durante la fase dell'infiammazione, il nocicettore è eccitabile anche da stimoli nocicettivi di soglia molto bassa, una condizione definita di "iperalgesia primaria". Il nocicettore libera le proprie sostanze algogene quando gli stimoli nocivi sono sufficientemente intensi da attivare oltre ai recettori AMPA, anche un altro recettore sensibile ad un aminoacido eccitatorio, il recettore per il N-metil-destro-aspartato (NMDA). L'iperalgesia primaria è una naturale reazione dell'organismo, che previene il ripetersi di lesioni nella stessa sede, rendendo questa più sensibile.

In condizioni eccezionali, quando la lesione colpisce le vie nervose, lo stato d'iperalgesia non si risolve. Il recettore NMDA ha un potenziale di membrana che è reso dalla presenza di ioni Mg2+; se la frequenza di scarica del nocicettore è eccezionalmente elevata, a depolarizzazione si protrae e gli ioni Mg2+ escono dai canali ionici, che rimangono liberi e lasciano entrare Ca2+ all'interno del recettore, dando inizio ad una cascata di reazioni che ne modificano in modo protratto ed anche per sempre il comportamento. In questi casi l'attivazione del recettore per il NMDA libera altre sostanze eccitatorie (glutammato, fosfochinasi C, Nitrossido, c-FOS), che attivano dei geni a breve termine i quali amplificano l'espressione, ossia l'eccitabilità, del recettore NMDA. Lo stato d'eccitazione della cellula nervosa amplifica l'apertura di canali ionici permeabili al sodio ed al calcio. Attualmente si conoscono almeno 8 distinti canali del sodio all'interno del sistema nervoso. Queste profonde modificazioni sulla membrana neuronale possono ridurre (down-regulation) alcuni sottotipi di canali del sodio o aumentare altri (up-regulation), che si concentrano nella sede di lesione. Contemporaneamente si riducono numero ed espressione dei neurotrasmettitori inibitori. In particolare, aumenta la produzione nei neuroni sensitivi di colecistochinina, un inibitore endogeno dell'espressione dei recettori per gli oppioidi, che è perciò ridotta. Questo dolore cronico, definito neuropatico, è spesso associato ad ipersensibilità al dolore ed a dolore evocato da stimoli normalmente non dolorifici ("iperalgesia secondaria", o "allodinia"). Nei pazienti con dolore neuropatico non è più possibile intervenire bloccando i mediatori dell'infiammazione in periferia, perché l'alterazione si trova nel sistema nervoso, in aggiunta i farmaci oppioidi sono poco efficaci perché la sensibilità dei recettori dell'inibizione è ridotta.

Quali sono quindi i farmaci disponibili per il dolore nocicettivo e quali quelli per il dolore neuropatico e quali sono le prospettive per il futuro?

I FANS controllano il dolore inibendo la sintesi delle prostaglandine e limitando infiammazione ed iperalgesia. La loro azione è prevalentemente periferica, anche se inibiscono in parte le risposte dei neuroni centrali. Sono la categoria di farmaci più prescritta al mondo per la loro azione analgesica, antipiretica ed antiinfiammatoria, ma il loro uso e non infrequente abuso è spesso responsabile d'ulcere gastroduodenali, ed è la prima causa di morte per emorragia gastrica. Nei casi in cui lo scopo principale della terapia è il controllo del dolore e non la riduzione dell'infiammazione, sarebbe preferibile fare uso di un analgesico non antiinfiammatorio meno gastrolesivo come il Paracetamolo. I FANS possono anche complicare un'insufficienza renale, specie se assunti contemporaneamente ad altri farmaci che causano un danno renale, come i chemioterapici. L'azione terapeutica, e purtroppo anche gli effetti collaterali dei FANS, sono conseguenti all'inibizione dell'enzima cicloossigenasi, necessario alla sintesi delle prostaglandine. La scoperta che esistono diverse isoforme di enzima cicloossigenasi (COX), di cui la COX-1 principale responsabile del danno gastrico e la COX-2 più espressa nelle sedi di infiammazione, ha portato alla sintesi di prodotti che inibiscono in modo più selettivo possibile la COX-2. Gli d'inibitori COX-2 selettivi rappresentano un importante passo avanti nella ricerca farmacologica. Per questo motivo, quando sono stati introdotti in clinica la promozione è stata entusiastica ed ha generato aspettative superiori alla realtà. Gli inibitori COX-2 selettivi si sono dimostrati anch'essi gastrolesivi, anche se 50 % meno dei meno gastrolesivi tra i FANS convenzionali. Purtroppo la tossicità renale degli inibitori COX-2 è sovrapponibile a quella degli altri FANS. L'attesa per il FANS ideale è ancora lunga, tuttavia il percorso di ricerca è già tracciato, nel breve termine saranno disponibili inibitori COX-2 selettivi che liberano Nitrossido (NO), un mediatore importante delle difese gastriche.

Gli oppioidi, pur avendo anche un'azione periferica, che è interessante per l'eventuale impiego locale di questi farmaci, esercitano la potente azione antalgica inibendo la nocicezione spinale, ed in minor parte migliorando la tollerabilità del dolore mediante l'effetto euforizzante. Gli oppioidi hanno ciclicamente goduto di vasta diffusione e di restrizioni nel corso dei secoli. Contrariamente all'opinione comune, non sono farmaci tossici, anzi sono ben tollerati anche da malati in gravi condizioni generali. L'effetto pericoloso degli oppioidi è l'inibizione del centro del respiro fino all'apnea. Gli oppioidi sono però temuti per il rischio che i loro effetti psicomimetici (inducono un senso di benessere e d'euforia), inducano all'abuso ed alla dipendenza. Gli effetti collaterali preoccupanti comuni sono piuttosto l'arresto dei movimenti intestinali fino alla paralisi, il prurito diffuso dovuto a stimolazione dei centri nervosi responsabili per questa sensazione, la nausea ed eventualmente il vomito persistente e, nei pazienti in terapia cronica, anche l'inibizione della funzione della ghiandola ipofisi, con conseguente riduzione della produzione dell'ormone della crescita e degli ormoni sessuali, con maggior rischio d'osteoporosi, impotenza o arresto del ciclo mestruale e perciò infertilità. La ricerca sugli oppioidi ha avuto nuovo slancio dopo il 1975, quando furono scoperte le endorfine, dei peptidi contenuti nel cervello umano dotati d'azione oppioido-simile. Dopo la sintesi delle endorfine sono stati scoperti anche i recettori del sistema nervoso su cui esse e gli oppioidi agiscono. In successione sono stati identificati diversi recettori: 1, 2, , e . Tutti i diversi recettori oppioidi sono espressi nei centri nervosi responsabili del controllo del dolore, ma alcuni sono più specificamente correlati a certi effetti collaterali. I recettori 1, inducono analgesia, euforia, prurito, nausea e stipsi, i 2 depressione del respiro, dipendenza e bradicardia, i analgesia, modificazioni dell'umore e nausea, i analgesia spinale, sedazione e miosi, i disforia e allucinazioni. I farmaci oppioidi in uso clinico hanno tutti azione mista e soprattutto genericamente sono agonisti. Per questo motivo il limite attuale dell'analgesia con oppioidi rimangono gli effetti collaterali, che sono proporzionali alla potenza analgesica.

Per identificare gli effetti di un blocco totale dei recettori oppioidi sono stati preparati topi transgenici privi di recettori. Questi topi transgenici si alimentano, crescono e si riproducono come topi normali e presentano naturali risposte d'evitamento degli stimoli nocivi. Differiscono dai topi normali soltanto per una ridotta attività sessuale ed un ridotto tempo di transito intestinale. La loro normale risposta agli stimoli dolorosi è un esempio della plasticità del cervello dei mammiferi, che in mancanza di una via nervosa elabora funzioni alternative, ad ulteriore dimostrazione di quanto sia complesso il sistema nervoso deputato alla percezione del dolore. La preparazione di farmaci oppioidi almeno parzialmente selettivi per il controllo del dolore, rimane la strategia principale della ricerca. Nell'attesa di isolare farmaci specifici per alcune sottoclassi di recettori , si stanno testando gli effetti d'inibitori selettivi dei recettori , meno potenti, ma potenzialmente responsabili di minori effetti collaterali. Un'altra strategia è potenziare l'azione d'altri inibitori del dolore, come i cannabinoidi endogeni, riducendone il catabolismo. L'Anandamide è un lipide endogeno con deboli effetti sui recettori per i cannabinoidi che viene rapidamente catabolizzato dall'enzima FAAH, un idrolasi delle amidi ed acidi grassi. È stato dimostrato che i ratti transgenici senza questo enzima sopportano meglio il dolore. Gli inibitori del FAAH potrebbero avere azione antalgica priva d'effetti collaterali.

Come anticipato FANS ed oppioidi non sono efficaci nel controllo del dolore neuropatico. In questa condizione le cellule nervose sono "iperattive" e rispondono meno al controllo inibitorio. L'iperattività neuronale può essere ridotta limitando la permeabilità al passaggio degli elettroliti responsabili della depolarizzazione nervosa. Farmaci che bloccano i canali del calcio e del sodio si sono dimostrati utili nella cura del dolore neuropatico. Questi farmaci appartengono a diverse categorie: sono anestetici locali, antiaritmici, vasodilatatori, e antiepilettici. Di questi gli antiepilettici sono i più efficaci nel controllo del dolore neuropatico e l'impiego degli antiepilettici di nuova generazione nella cura di queste drammatiche condizioni di dolore cronico ha realmente cambiato le possibilità terapeutiche. Dopo una lunga fase di sperimentazione, legata a seri effetti collaterali con disturbi cognitivi ed amnesia, è stata recentemente approvata per uso clinico una molecola dotata d'attività antalgica che, essendo una proteina, deve però essere somministrata direttamente nel sistema nervoso. Questa sostanza, derivata dalle conotossine naturali, veleni prodotti da lumache marine, si è dimostrata più potente della morfina nella cura del dolore da cancro. Nonostante gli effetti collaterali e la complessità di somministrazione le conotossine rappresentano una nuova frontiera nella terapia del dolore perché agiscono bloccando i canali calcio, un sito d'azione comune ad altri antiepilettici efficaci nel controllo del dolore neuropatico. Certamente tutti questi farmaci causano inibizione dell'attività nervosa normale, con effetti indesiderati come sonnolenza, sedazione, riduzione dell'attenzione o anche della memoria e anche in questo campo la ricerca è impegnata ad identificare sostanze con azioni più mirate.

La cura del dolore neuropatico rappresenta un tema di grande interesse per la ricerca farmaceutica, in primo luogo per l'importanza di curare i pazienti colpiti da condizioni croniche che oggi non sono curabili in modo adeguato, ma anche per i contenuti di conoscenza collegati. Quando si disporrà di efficaci e selettivi inibitori del recettore NMDA, nel futuro si potrà "modulare" la risposta nervosa agli stimoli nocicettivi per impedire il processo di sensibilizzazione, e per esempio, si potrà ridurre il dolore post-traumatico e post operatorio utilizzando meno oppioidi e FANS di quanto sia oggi necessario.

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